Tempo di Natale: gli amaretti

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Mentre l’aria si faceva gelida e cristallina, per la neve e le gelate notturne, i tetti si adornavano di lunghi ghiaccioli acuminati che noi bimbi staccavamo e succhiavamo proprio come ghiaccioli. Le mani si arrossavano e dolevano, “ncennevano” come dicevamo infilandocele nelle tasche per scaldarle.
Quasi mai portavamo cappotti, solo maglioni di lana sapientemente lavorati dalle nostre mamme e nonne e scarponi quasi sempre risuolati da ‘Ngelucciu’ o Sabbatinu’ i scarpari “degliu paese ammonte”, “agliu paese abballe” ci stava invece ‘Lisandru’. Ma per Natale tutti avremmo avuto qualcosa di nuovo, un paio di scarponi o un vestito, se andava benissimo, magari, un cappotto.
Noi bimbi eravamo eccitati al pensiero, pensavamo alla Messa di Mezzanotte e come tutti ci saremmo scrutati per vedere chi avesse ricevuto la cosa più bella!
Come ci saremmo pavoneggiati nei nostri nuovi vestimenti e come le nostre mamme ci avrebbero adornato i capelli con nastri e boccoli. Parlo naturalmente sempre dei mitici anni ’50 e ’60. I vestiti erano meravigliosi all’epoca, le bimbe sembravano tutte piccole principesse, con vestitini colorati e sottogonne inamidate, ma questo più durante l’estate, in inverno, per la domenica e le feste, mettevamo cappottini colorati sui quali spiccavano le nostre scure trecce, ben strette e legate con nastri rossi. E’ chiaro, come con il passare del tempo, i ricordi si facciano sempre più dolci, perdano per strada quelle asperità, quelle crudezze, che nel momento in cui si vivono le cose, per forza ci debbono essere.
Così si dimenticano i pavimenti delle case sporchi di fango, la strada che va verso la fonte “ammonte” completamente ghiacciata e le “culate” dolorose per ogni caduta sul ghiaccio, o i geloni che piagavano i piedi e a volte anche le mani, o la mancanza cronica di legna per ardere che rendeva i dintorni di Santa Anatolia, brulli, poiché chiunque, per alimentare il fuoco nel camino, tagliava dove poteva. Chi se li scorda quegli asinelli carichi di frasche con il padrone dietro ad incitarli “ah, ah! e giù una frustata!
Ma poi, finiti i giochi nella neve, ricoverati gli animali nelle stalle, arrivava la sera. Le campane iniziavano a suonare all’imbrunire, ci chiamavano per i vespri e, prima di Natale per le novene. Non ricordo quante volte suonassero ma ogni chiamata aveva un suono diverso, l’ultimo scampanio era per “accennare”. Allora si sentivano donne, sempre donne, dire: “Ha accennatu? Scine? U allora me tocca sbrigà, mo sona pure u campaneglie!”

E andavamo in chiesa per la novena.

Don Giovanni ti guardava con sguardo severo se arrivavi tardi. La chiesa si riempiva di gente, gli uomini da una parte e le donne rigorosamente dall’altra e si iniziava. Allora si pregava ancora in latino e al momento del “Tantum Ergo”, io e le mie amichette ci sbellicavamo dalle risate con tutte quelle parole che finivano per “ò” come “giubilaziò” (jubilatio) e benediziò (benedectio) o laudaziò (laudatio) urlate a squarciagola da tutte le donne e uomini del paese, non avevamo assolutamente idea di cosa stessimo dicendo!
Ma mentre tutto ciò succedeva, alcune donne che avevano il loro turno nel forno continuavano a cuocere pane e dolci e, quando il vespro finiva, passando davanti al forno, capitava di trovarci donne intente a cuocere grandi “stagnatelle” di amaretti sapientemente preparati perché così doveva essere.

Ricetta degli amaretti così come si fanno a Santa Anatolia

Kg 1 di mandorle dolci
Kg 0.200 di mandorle amare
Kg 0,700 zucchero
N° 7 bianchi d’uovo
Scorza grattugiata di un limone

Si tritano le mandorle (oppure si frullano) si avrà cura di far asciugare bene le mandorle prima di tritarle o frullarle
Si uniscono alle mandorle tritate lo zucchero, gli albumi e la scorza grattugiata del limone, si amalgama per bene, poi si formano gli amaretti della grandezza voluta e si cuociono nel forno a fuoco moderato finché non sono di un bel colore dorato.
Attenzione a non cuocerli troppo altrimenti diventano dei bei sassi color caramello!

Quello che porterò sempre con me come immagine indelebile è il vociare a volte allegro a volte stizzito o addirittura incavolato, delle solite donne, intente a cuocere cose, nella luce del giorno morente e che al lume di una candela aspettavano che gli ultimi dolci cuocessero per poi lasciare il posto ad altre donne che con identici, antichi gesti, avrebbero ripetuto il miracolo della creazione di delizie prelibate

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